venerdì 22 novembre 2013

Seconda Parte (intervista a Milazzo): Fanzine Popular Press n.1 del 1984

Seconda parte: Intervista a Ivo Milazzo.
Per leggere la prima parte (intervista a Berardi) qui

D: Chi è Ken Parker?
R: “E’ un uomo dell’ottocento, la cui vita si svolge in America, che affronta da uomo normale tutte le situazioni che la vita stessa gli propone di volta in volta, cercando di risolverle con la propria personalità e la propria sensibilità. Per quanto mi riguarda è anche un amico, un compagno, perché è stato testimone della mia evoluzione grafica e grazie a lui sono potuto arrivare all’attuale situazione professionale, proprio stilisticamente parlando, e grazie a lui ho potuto far conoscere il mio lavoro a molte persone.”

D: Quanto c’è di KP in lei?
R: “Forse sarebbe più giusto dire quanto c’è di me in KP. Alcuni dicono che ho preso il mio viso per fare il personaggio; sicuramente c’è di vero che ognuno di noi, più o meno inconsciamente, cerca di trasmettere qualcosa di se stesso in tutto quello che fa, è anche umano che sia cosi. Senz’altro c’è il suo modo muoversi, di gestirsi, di comportarsi, perché chiaramente quando si esegue un disegno, non utilizzando modelli, la cosa più semplice è quella di esaminare se stessi, per la riproduzione di certe posizioni, e quindi involontariamente si ripropone la propria persona al lettore.”

D: Quanto tempo le richiede l’esecuzione di una tavola a colori? E quanto una in bianco e nero?
R: “E’ difficile a dirsi. Dipende dalla complessità sia di quella a colori, sia di quella in bianco e nero; ci sono delle pagine che uno esegue abbastanza celermente, altre che richiedono più tempo. Io so che nell’arco di un anno riesco ad eseguire più o meno 150 tavole, grosso modo sono un po’ meno di una tavola al giorno. Senz’altro una tavola a colori richiede più tempo, perché il bianco e nero, per quanto mi riguarda, è più immediato, è più dentro la mia testa, e se devo eseguire una pagina a colori, come per esempio in “Cuccioli”, dove ho eliminato i molti punti in nero e quindi ho dovuto pensare il colore in sostituzione, per cui c’è senz’altro una notevole perdita di tempo per eseguire questa tavola, e poi c’è una sua complessità strutturale maggiore rispetto al bianco e nero.”

D: Collabora con Berardi alla stesura dei soggetti? Ed in generale come si svolge il vostro lavoro?
R: “No, io non collaboro alla stesura dei soggetti, perché essi vengono prima, e poi ognuno di noi ha dei compiti ben definiti. Questo non vieta comunque che, sentendoci molto spesso, parlando di un soggetto, ci possa essere un suggerimento da parte mia, un arricchimento, come viceversa può esserci un suggerimento, un’idea da parte di Berardi per quanto riguarda il disegno. Questo sempre è determinato dal fatto che abbiamo iniziato insieme questo mestiere, e prima di iniziare siamo diventati amici, proprio sui banchi di scuola, che ci hanno permesso di conoscerci e di vedere che avevamo questa complementarietà di interessi, cioè a lui piaceva scrivere, a me piaceva disegnare, ci siamo trovati bene e abbiamo iniziato questa carriera, dividendone gli alti e i bassi, puntellandoci a vicenda nei momenti di sconforto. Ciò ci ha permesso di dare un’insieme di lavoro molto omogeneo, molto completo, proprio perché ognuno esegue il suo lavoro, lo esegue al meglio, e questo lavoro, essendoci una sensibilità comune, un’ottica comune, la conoscenza delle stesse cose, può essere eseguito in quel determinato modo. Molte volte mi viene chiesto se Berardi mi obbliga con delle scritture a fare delle determinate cose, ma non è un obbligo; leggendo i suoi soggetti, molte volte la vedo nello stesso modo in cui lui me la indica. Molte volte Giancarlo non mi indica nulla nella sceneggiatura, ed io eseguo secondo la parte di regia che mi spetta e molto spesso mi conferma che la visuale è simile alla sua, proprio la stessa linea di condotta.
Il nostro lavoro quindi si svolge in questo modo, che Berardi ha un soggetto in testa, ne fa la sceneggiatura, intanto se ne parla, si cerca tutta la documentazione necessaria sia per il testo che per i disegni, dopodiché c’è l’esecuzione della tavola disegnata e li finisce il nostro lavoro.”

D: Non le ha creato problemi il lavorare con personaggi il cui volto è già noto al lettore (Redford, Lee Marvin, la Monroe ecc.)? Non si sente condizionato?
R: “No, assolutamente, non mi ha creato nessun problema, anche perché molte volte quando ci sono dei personaggi nelle storie, io cerco di visualizzarli con un attore che ho già visto in una parte che potrebbe adattarsi a quella che devo eseguire. Questo anche per facilitarmi la caratterizzazione del personaggio. E se in genere scelgo un attore che ha fatto una parte eclatante, per me è un rendergli omaggio, non cerco di mimetizzarlo, anzi cerco proprio di renderlo riconoscibile per far capire questa citazione. Ripeto, non nessuna difficoltà nel riprendere degli attori, il maggior problema sta nel cercare di catturare i tratti necessari, di base, per ricrearne l’immagine fisica.”

D: “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” è il film che ha dato il volto di Robert Redford a KP; in precedenza era stato considerato un altro volto?
R: “No, perché quando nacque KP, nacque per caso innanzi tutto, perché doveva limitarsi ad un racconto solo, che avrebbe dovuto essere inserito nella Collana Rodeo. Però Bonelli a quel punto aveva bisogno di materiale e dopo l’esecuzione del primo albo, ci ha chiesto di farne un secondo. E dovendone fare un secondo e poi un terzo, nacque la necessità di rendere il personaggio più facilmente riconoscibile, ringiovanirlo un pochettino, e si mantenne la fisionomia di Robert Redford che aveva ispirato il personaggio fin dall’inizio, proprio perché KP nacque sulla scia di “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, su desiderio di riproporre questa figura abbastanza mitica dell’epopea americana, questo cacciatore di pellicce, con quel fucile particolare, ad avancarica, a canna lunga, pronto per la caccia, che non veniva utilizzato per l’offesa, o almeno questo era l’intento. Mi piacque proprio Robert Redford perché si staccava dai canoni classici di bellezza, che erano quelli che avevano caratterizzato il cinema degli anni ’20, ’30 e ’40. E aveva una struttura fisica non eclatante che riproponeva una figura di personaggio umano, proprio una persona qualunque. Questa è stata la motivazione della scelta.”

D: Lei ha dichiarato che per le sue tavole usa documentarsi approfondendo la conoscenza dei pittori del periodo in questione. Per Kp a chi si è rivolto? Jacob Miller, Russell, Catlin, Remington o chi altri?
R: “All’inizio non mi sono rivolto a nessuno, perché le mie finanze non mi permettevano di arricchire le mie conoscenze con quei volumi di cui avrei fatto uso in seguito. Per cui la conoscenza di questi pittori è venuta in seguito ai primissimi numeri, e senz’altro quelli che mi sono piaciuti maggiormente sono stati Remington, Russell ed altri pittori che hanno ripreso l’epopea western come Harold Forsmith e Claimer (i miei preferiti). Catlin e Miller non mi hanno mai mandato in visibilio, diciamo, li sentivo troppo oleografici, erano bravissimi, ma lontani dalla mia sensibilità.”

D: In KP seguiamo l’evoluzione del suo stile: da un disegno minuzioso, ricco di particolari, accademico, ad uno nervoso, sintetico, più efficace. Naturale evolversi di uno stile o in ciò pesa l’elevato ritmo produttivo che una serie di 96 tavole mensili impone?
R: “L’evoluzione di un tratto è una cosa normale per chi fa questo lavoro, per chi lo fa cercando di migliorarsi. All’inizio io riprendevo, cercavo di imparare da professionisti già affermati che più o meno avessero quel modo di ripassare che si confaceva alla mia idea. Ed in genere ho guardato disegnatori che avevano seguito la scuola di Caniff e di Toth. Però andando avanti, chiaramente ho abbandonato quest’aiuto che i miei colleghi mi offrivano, con l’acquisizione della tecnica ho cercato di far venire fuori quello che c’era ll’interno di me, della mia personalità. Quindi c’è stata questa ricerca di sintesi, di eliminare tutto quello che secondo me era una perdita di tempo, che non era di arricchimento al disegno, ma che era solo una sovrastruttura, un abbellimento non necessario alla lettura. Questo sempre perché io considero il disegno come narrazione, il fumetto è narrazione e come tale deve cercare di farsi leggere il meglio possibile, deve essere immediato perché altrimenti diventa illustrazione. Io ritengo che ci sia molta differenza tra fumetto e illustrazione, non per creare dei distacchi o per cercare dei distacchi, semplicemente perché l’illustrazione ritrae qualcosa che il testo già dice, che il testo già propone al lettore; in quel caso l’illustrazione rimane fine a se stessa, certo anche li dipende da chi esegue l’illustrazione, c’è sempre un arricchimento della stessa da parte di chi la esegue al di la di ogni stile; al contrario il fumetto, il disegno per il fumetto deve essere proprio sintetico, rapido, privo di segni che possano spezzare la lettura. Penso che l’arricchimento del disegno possa venire con la recitazione del personaggio, con la documentazione dell’ambiente che deve avvenire sempre in maniera, come posso dire, il più possibile plausibile, mai in maniera appariscente. Quindi questo tratto nervoso, sintetico, più efficace è anche uno specchio della mia personalità. La scelta non è poi stata determinata dalle 96 tavole che sono una mole di lavoro paurosa, se guardate la mia produzione nei 59 albi che compongono la collana, vedrete che i miei sono 15/16, il che vuol dire che la produzione non è stata elevatissima, erano due albi all’anno massimo e se pensate a quanto vi ho detto all’inizio dell’intervista più o meno sono duecento pagine. C’è anche da dire che 96 tavole in certi casi accentrare maggiormente l’attenzione del lettore sui personaggi e quindi c’è una facilitazione di esecuzione proprio perché quello che non si mette in una tavola si può mettere nella successiva; quando invece si ha un numero limitato di pagine bisogna chiaramente accentrare quello che è necessario alla narrazione.”

D: In KP usa varie tecniche di disegno: dal classico bianco e nero al colore, dalla mezzatinta alla spugnetta. Quale le ha dato maggiori soddisfazioni?
R: “Io penso che ogni tecnica, proprio perché è ricerca, da le sue soddisfazioni. Forse quella che per adesso non ripeterei è quella della spugnetta, è un mezzo troppo meccanico per quanto mi riguarda, troppo artificioso, per cui, dato che il mio stile, il mio modo di disegnare è basato sulla immediatezza, sulla spontaneità del mezzo, non avrei scelto l’acquerello altrimenti; ritengo appunto che la tecnica della spugnetta sia quella che meno si confaccia alle mie qualità naturali, l’ho voluta sperimentare in quel caso (l’episodio “Parker Addison, filosofo” in “Storie di Soldati”, Ken Parker n.50 n.d.r.) perché dovevo staccare il racconto singolo dalle pagine di collegamento, realizzate con il bianco e nero normale.
Quella che mi ha dato più soddisfazione è stata la tecnica della mezzatinta, perché ti offre un’infinità di soluzioni e ti da una soddisfazione incredibile, impalpabile. Nonostante ti dia un’immagine monocromatica, uno potrebbe scorgere un’infinità di colori dentro quella soluzione.
Per quanto riguarda il colore, ancora adesso sto cercando delle soluzioni che arricchiscano quelle che ho già trovato; ma l’interessante di questo mestiere è quello di non avere nulla di canonizzato, e c’è sempre una ricerca personale in tutto quello che si fa. Questo determina una passione per il mestiere che si svolge, e la passione è in genere quella che ti permette di migliorarti.”

D: Che genere di difficoltà ha incontrato passando dal bianco e nero al colore?
R: “In parte ho risposto già prima a questa domanda. Io il colore lo utilizzavo già per le copertine, anche se chiaramente era un’esecuzione diversa dalla pagina in bianco e nero normale; ripeto, forse la difficoltà era che in certi casi dovevo sostituire il nero con il colore, e quindi dovevo pensare a non inserire il nero in determinati punti, come invece l’istinto mi avrebbe dettato di fare.”

D: “Cuccioli” è stata una festa del colore (parole sue); non trova tuttavia che l’uso massiccio del colore carichi troppo il disegno pregiudicandone talvolta la chiarezza? (per esempio nella seconda striscia della sedicesima tavola)
R: “Li c’è anche un discorso di stampa, la riproduzione di quelle pagine, come è stata fatta per Orient Express, non è stata delle migliori, infatti c’era troppo rosso nelle pellicole, per cui alcuni sfondi si sono persi e ha pregiudicato un pochino quella che era la realtà della pagina e quindi del colore stesso. Io ritengo che questa tecnica che ho adottato sia abbastanza buona per fare delle tavole a colori, proprio perché c’è un ripasso, un contorno eseguito a pennino e poi uno sfondo lasciato totalmente a colori. Ritengo che sia un mezzo efficace, altrimenti non l’avrei utilizzato, e penso che con successivi miglioramenti ne possa essere ricercata una maggiore perfezione.”

D: E’ tradizione di casa Cepim che le copertine di ogni serie vengano realizzate da un solo disegnatore, capita cosi che tra la situazione ritratta in copertina ed il reale contenuto dell’albo vi sia incoerenza. In KP è successo una sola volta, con il numero 57 “Il sicario”. Cos’è successo?
R: “In genere ho sempre cercato di capire cosa accadeva nell’albo e poi facevo una illustrazione di copertina accattivante, che cercasse di riassumere quella che era un po’ la storia, anche se è molto difficile riassumere quello che è il contenuto di 96 pagine. Per quanto riguarda gli altri casi, non so se c’è mai stata incoerenza, per quanto riguarda “Il sicario”, ho pensato che anche se la storia si svolgeva in città l’importante era che la copertina desse l’immagine esatta di quello che voleva significare l’albo. C’era questa scelta, e poi forse la motivazione di base è che l’idea che mi era venuta in quel momento era quella.”

D: E’ dal ’74 che disegna KP, non se n’è stancato?
R: “No, non me ne sono stancato, perché siamo sempre riusciti ad alternare questo personaggio ad altre cose, c’è stato Tiki, c’è stato Welcome to Springville, c’è stato “L’uomo delle Filippine”, c’è Marvin, per cui l’importante secondo me è non fare sempre la stessa cosa, perché alla fine si rischia veramente di fossilizzarsi in un genere, si rischia di far cadere un interesse per l’epoca che si sta realizzando; il segreto penso stia proprio nel diversificare la propria produzione, per tornare con amore a ciò che è magari alla base del proprio lavoro.
Io mi auguro che KP non mi stanchi mai; andando avanti il tempo, quello che stanca non è il proprio lavoro, ma molte volte è quello che lo circonda, necessario, ma alle volte un attimino stressante. Mi auguro di amare sempre il mio lavoro, perché per amore l’ho scelto, e ripeto, KP è stato il primo personaggio che abbia realizzato ed è stato il mio compagno d’avventura, un’avventura che fino adesso sta andando avanti e mi auguro termini con un lieto fine.”

FINE  

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